Nel 1945, dopo i mesi tormentosi del nostro paese, anche Germania e Giappone caddero sotto il potere angloamericano e quello sovietico, decretando la fine della seconda guerra mondiale.
Cinecittà, favorita dal regime più degli stessi soldati al fronte, seguì le sorti di un’Italia che usciva sconfitta e devastata dal conflitto. La produzione nazionale crollò dai centoventi film del 1942 a poco più di venti nel 1944.
Fortunatamente il patrimonio dei cinema dislocati sulla penisola non subì gravi danni. A fine guerra quasi cinquemila sale aspettavano con apprensione le pellicole da proiettare, non potendo sperare nel ripristino degli studi.
A Cinecittà occorsero ben due anni per riprendersi e realizzare il primo film post bellico.
Il 5 Ottobre del 1945 fu abolita la vecchia legge sul monopolio e si aprirono al settore le porte della liberalizzazione.
Le case produttrici americane non aspettavano altro dai giorni dell’embargo, soprattutto dopo aver accumulato nel mentre tante pellicole da proporre al mercato italiano.
Gli spettatori si riversarono in massa nelle sale, recuperando il tempo perduto lontani da un cinema che prima li distraeva e li faceva sognare e che ora doveva far dimenticare loro definitivamente il passato. Fu così che la penisola venne travolta da un’ondata di seicento pellicole, alcune delle quali materiale dei fondi di magazzino americani.
I film non doppiati dagli oriundi italiani residenti negli Stati Uniti portavano le famigerate didascalie. Gli stessi fautori dei sottotitoli tuttavia dovettero riconoscere l’impossibilità di seguirli per l’eccessiva rapidità con cui scorrevano per tenere il passo con i dialoghi, per non parlare di quanto fossero poco leggibili.
Si aggiungeva il problema ancora presente dell’analfabetismo e il pubblico finì inevitabilmente per disertare le sale di proiezione, affollando invece quelle che proponevano i film doppiati.
Gli spettatori però si accorsero che le voci che ascoltavano non erano quelle della memoria e rimasero delusi.
Anche ai critici parve necessario tornare alla vecchia compagnia di doppiatori, la sola in grado di garantire la qualità.
Gli attori doppiatori, pionieri ormai diventati storici, non si erano allontanati poi tanto. Avendo frequentato gli studi fino alla fine del 1943, si organizzarono tempestivamente in cooperative.
Insieme agli alleati giunti a Roma vi fu anche un certo M. R. Lawrence (funzionario della M.G.M., a suo tempo ispettore generale per l’Europa), il quale propose a Franco Schirato di riprendere il suo posto.
Le voci della memoria decisero di associarsi per meglio coordinare l’evento storico che seguì il conflitto mondiale. I primi contatti furono a guerra non ancora conclusa, soprattutto fra i direttori del doppiaggio: Franco Schirato per la Metro, Nicola Fausto Neroni per la Warner, Luigi Savini per la Paramount e Sandro Salvini per la Fox, i quali, venuti a conoscenza della intenzioni delle rispettive case di non riaprire i propri stabilimenti di sincronizzazione, pensarono di costituire un’organizzazione che coinvolgesse le voci protagoniste nel periodo precedente la guerra, le più e le meno note, cercando di raggrupparle tutte per operare in un regime di monopolio.
L’idea si diffuse rapidamente fra gli attori doppiatori di un tempo, i quali videro in ciò la possibilità immediata di lasciarsi definitivamente alle spalle le ristrettezze a cui la guerra li aveva costretti.
Gli incontri preliminari tra i direttori e gli attori più importanti di Roma misero in evidenza l’assoluta necessità di dare stabilità al rapporto associativo, garantendo agli aderenti un lavoro sicuro e continuativo, benché proporzionato alle capacità del singolo.
Allo stesso tempo occorreva vincolare le voci legate agli attori stranieri famosi e quelle con caratteristiche peculiari e inusuali, magari riconoscendo loro un peso diverso e quindi una forza contrattuale adeguata.
In ultimo bisognava rendere impermeabile l’organizzazione che doveva trovare al suo interno le risorse necessarie per soddisfare ogni genere di richiesta.
La forma associativa della cooperativa era quella che meglio sembrava rispondere alle esigenze, dando anche precise garanzie per il contenimento dello strapotere delle case di produzione e di distribuzione.
Nacque così la CDC (Cooperativa Doppiatori Cinematografici).
Una sorta di scudo protettivo si attivò intorno ai circa centocinquanta soci iniziali, numero che si sarebbe mantenuto più o meno costante fino alla fine degli anni Quaranta.
Migliaia furono le pellicole doppiate dalla Cooperativa nel decennio. Nel 1945 si doppiò “Il ladro di Bagdad”, dove Giulio Panicali (John Justin) interpreta Ahmed, Gian Franco bellini (Savu) che interpreta Habre, Emilio Cigoli (Conrad VVeidt) nel ruolo di Jafar e Lidya Simoneschi (June Duprez) per il personaggio della principessa.
Fra le altre voci del film: Mario Bisesti,Lauro Gazzolo,Cesare Polacco, Olinto Cristina,Giovanna Scotto e Stefano Ribaldi.
Intanto nella capitale un gruppo di cineasti cercava di realizzare con mezzi di fortuna il capolavoro che avrebbe portato il titolo di “Roma città aperta”, proiettato il 24 Settembre 1945 al teatro Quirino in occasione del primo festival del cinema della Roma liberata.
Alcuni degli attori che recitarono con la propria voce: Anna Magnani, Aldo Fabrizi, Giovanna Galetti, Nando Bruno e Edoardo Passerelli.
I doppiati invece: Carla Rovere da Rosetta Calavetta, Marcello Pagliero da Lauro Gazzolo, Harry Feist da Giulio Panicali, Francesco Grandjacquet da Gualtiero De Angelis, mentre uno dei ragazzini venne doppiato da Feruccio Amendola.
Tra le voci anche Bruno Persa che interpreta un soldato tedesco, Cesare Polacco un inquilino, Giorgio Capecchi un militare fascista e Mario Bisesti Flavio (l’oste).
Le voci rimanevano l’unico legame con un passato che si avvertiva già lontano e diverso.
La cinepresa non inquadrava più i telefoni Bianchi, ma si soffermava sulla realtà vera per catturare gli aspetti autentici nella vita quotidiana della gente comune.
Nel 1946 la Warner Bros affidò alla CDC il doppiaggio del suo capolavoro “Casablanca”.
Neroni, nel rispetto delle direttive della casa di produzione, scelse la voce di Bruno Persa, il doppiatore che più aderiva al fisico e al volto di Humphrey Bogart, mentre a Angela Scotto andò il personaggio interpretato da Ingrid Bergman.
Le voci italiane ormai erano così affermate e radicate nel sentimento comune che i committenti, soprattutto quelli americani, non gradivano le novità, anche dati i risultati raggiunti in poco tempo, mentre dal canto suo il pubblico aveva imparato ad amarle e non avrebbe accettato facilmente qualcosa di diverso.
Il consiglio di amministrazione della CDC, proprio per la cura con cui aveva associato le voci più significative con il loro impeccabile sincronismo e la loro straordinaria musicalità, non poteva immaginare che poco tempo dopo la sua formazione avrebbe dovuto fare i conti con un’altra associazione di doppiaggio.
Il conte Giacomo Giannuzzi Savelli, appassionato di cinema e importatore di film, soprattutto francesi, vedendo di cattivo occhio la situazione di monopolio che si era determinata, fondò in alternativa alla CDC la società ODI (Organizzazione Doppiaggio Italiano).
Le ragioni addotte dal conte erano quelle di recuperare gli spazi lasciati liberi dalla politica della concorrente, di sfruttare l’inevitabile stanchezza che si sarebbe manifestata nel pubblico per la ripetitività delle voci, di dare ribalta a quelle tanto sacrificate in CDC dalla presenza delle voci storiche.
Giannuzzi teneva conto della forte domanda di doppiaggio che non poteva essere soddisfatta dalla sola CDC, ma le motivazioni non erano soltanto di ordine pratico e imprenditoriale.
La ODI intendeva dare nuovo lustro al doppiaggio appesantito dalla presenza delle solite voci logorate dal tempo e appannato da un assurdo perfezionismo tecnico a freddo mestiere.
Giannuzzi si rendeva conto della difficoltà di coinvolgere le case statunitensi in un processo di rinnovamento. Nessuno avrebbe accettato un John Wayne con una voce diversa da quella di Emilio Cigoli, però Giannuzzi, che conosceva bene la realtà cinematografica italiana in rapido risveglio, intuiva che sarebbe stato problematico far parlare attori italiani con la voce di Wayne.
La sua idea era di usare giovani attori di teatro dalle voci ancora sconosciute , i quali venissero scelti al di là della perfetta aderenza al volto degli attori da doppiare e soprattutto che si alternassero frequentemente, rompendo la consuetudine di un forte e condizionante binomio voce = volto.
La predominanza del doppiatore rispetto al doppiato può sorprendere noi oggi, ma al tempo attori a noi ben noti come Alberto Sordi (voce di Onlio) erano ancora sconosciuti ai più e il pubblico non trovava nulla di anomalo. In casi come quello di Sordi la cosa si notò e cambiò solo quando l’attore divenne una celebrità. Per altro la frequentazione delle sale cinematografiche era così bassa che gli spettatori non avevano modo tra una pellicola e l’altra di ricordare sistematicamente le varie voci per poi riconoscerle con facilità in occasioni successive, per quanto ricorrenti potessero essere.
Oggi questo potrebbe succedere per la gran quantità di film proposti in poco tempo, ma non così allora.
All’iniziativa di Giannuzzi aderirono molti giovani attori, che a differenza dei colleghi della CDC, non abbandonarono l’attività teatrale e cinematografica. Pur mancando di mestiere portarono con sé un vento nuovo nel mondo delle voci, benché l’impostazione della recitazione risentisse di una certa tecnica teatrale e i timbri mancassero di quelle coloriture a cui il pubblico era abituato.
Le due società lavorarono in concorrenza leale, dato che in definitiva gli ambiti in cui operavano erano complementari.
Per tanto le case produttrici che erano per un eventuale sodalizio tra il doppiato e il doppiatore facevano riferimento alla CDC, che nulla faceva per diversificare, mascherare o rinnovare le sue voci, dalla cui presenza costante traeva la propria forza di mercato.
Le case che invece non avevano simili esigenze o perfino temevano la loro identificabilità si servivano della ODI, che al contrario puntava sulla non riconoscibilità delle sue.
Durante il dopoguerra il piano di aiuti economici Murshal stanziò 50.000 $ per la nostra industria cinematografica. La strategia statunitense era quella del prestito condizionato: dollari prestati con l’impegno della controparte ad acquistare dal mercato americano. Il cinema non fece eccezione e le sale italiane vennero invase dalle pellicole statunitensi, con un pubblico ogni anno più numeroso. La fila ai botteghini era assicurata, come le materie prime e i potenti macchinari. Insieme a un nuovo modello di democrazia e di società, di cultura e di economia, gli Stati Uniti esportarono le immagini abbaglianti dei loro divi.
(brano realizzato in collaborazione con il Prof. Gerardo Di Cola)